Il Castel Nuovo, ma per i Napoletani, il Maschio Angioino, entra nel progetto di riorganizzazione urbanistica voluto dagli angioini. Reggia in una zona pianeggiante, chiamata campus oppidi, che sarebbe divenuto il centro del successivo sviluppo della città. Anche del nuovo nucleo del potere politico, amministrativo e militare della Napoli capitale.
La zona compresa tra la cinta muraria del Castrum Lucullanum e quella di Neapolis era aperta campagna. Dopo la distruzione del Castrum, in seguito al fiorire del monachesimo, sorsero diversi conventi. Uno dei conventi, era sito proprio nel luogo in cui Carlo I d’Angiò voleva edificare il suo castello.
Il re provvide quindi a pagare i frati francescani perché si spostassero dal luogo. Di conseguenza, facendo costruire per loro un nuovo convento con una nuova chiesa, a Santa Maria la Nova. Inizia così la costruzione di quello che gli angioini chiamavano “le Chateau Neuf”, il Castel Nuovo.
Tra il 1279 e il 1284 Carlo I impartisce severe disposizioni affinché la costruzione del Maschio Angioino terminasse il prima possibile. Si impegnarono un numero di maestranze straordinarie. Tanto che nel 1282, il maschio Angioino era già finito. I registri angioini ci dicono che la costruzione fosse stata affidata a Pierre de Chaules e non, a Giovanni Pisano .
La prima raffigurazione del Maschio Angioino risale al XIV – XV secolo per mano di un ignoto maestro napoletano. Nella tavola si possono ben distinguere il Belforte, la Certosa di S. Martino ed appunto il Maschio Angioino. Rappresentato come un edificio a pianta quadrata con al suo interno la Cappella Palatina. L’opera è attualmente conservata al MOMA di New York.
Carlo I non abitò mai in questo castello che aveva voluto con gran premura, vi si stabilì, invece, il suo successore Carlo II, al ritorno della sua prigionia in Sicilia. Fu lui a far costruire nei pressi della reggia, per i suoi molti figli, quelle che oggi si chiamerebbero dependance, con scuderie e giardini, gli Ospitium. Per decorare il suo castello invitò a corte Pietro Cavallini e, pare, Montano d’Arezzo.
Carlo II nel 1294 ospitò nel castello papa Celestino V. Il quale, dopo solo due mesi dalla sua elezione al soglio pontificio, il 13 dicembre decise di abdicare. La cerimonia dell’evento ebbe luogo nella Gran Sala del Maschio Angioino. Undici giorni dopo, in questa stessa sala, il conclave elesse il suo successore, Bonifacio VIII.
Roberto d’Angiò ad arricchisce maggiormente, di arte e cultura, le sale del castello. Il Maschio Angioino ospitò Petrarca e Giotto, che ebbe l’incarico di affrescarne le cappelle. Con la morte di Roberto nel 1343 termina il momento aulico di Castel Nuovo. Da questo momento, inizia un lungo periodo di incertezze e di guerre legato al regno di Giovanna I d’Angiò e alla casa durazzesca.
Della struttura originaria del castello angioino non è rimasta nessuna raffigurazione. Sappiamo che la pianta era quadrilatera irregolare con quattro cortine con torri gotiche intorno ad un cortile centrale. Un profondo fossato, mai colmato con acqua di mare, divideva il castello dalla terra e vi si accedeva attraverso un ponte levatoio.
Tra gli elementi originari della prima fabbrica angioina possiamo annoverare la cappella Major, o Cappella Palatina. Iniziata nel 1307 per volere di Carlo II sotto la direzione di Giovanni Caracciolo d’Isernia e Gualtiero Seripando. L’ingresso è nel mezzo di uno dei lati della corte interna. La cappella ha un’unica navata senza cappelle laterali e presenta un’abside piatta.
Il bel soffitto piano a capriate lignee lascia intravedere sulle pareti tracce dell’imposta di volta a crociera probabilmente di epoca precedente. Il soffitto originario fu infatti sostituito nel 1500 . Sulle pareti ci sono alte monofore, tre a destra ed una a sinistra per l’affiancamento della Sala dei Baroni.
Nel 1328 viene chiamato Giotto. Sosterà a Napoli fino al 1333, ad affrescare la cappella con scene del Vecchio e Nuovo Testamento. Gli strombi delle finestre e i frammenti di affreschi sono l’unico documento della permanenza in città di Giotto, del suo allievo, Maso di Banco, e della sua bottega. La cappella venne fortemente danneggiata dal terremoto del 1456. Ed anche dai rifacimenti del 500 prima e del barocco poi.
La facciata della cappella ha un bellissimo portale rinascimentale in marmo. Una Natività ed una Vergine scolpita da Francesco Laurana del 1474. Il rosone è, invece, un delicato lavoro degli artisti catalani, quindi successivo.
Nel 1926 si effettua il primo intervento di restituzione all’aspetto angioino e aragonese. Si toglie la veste settecentesca, si ritrovano e gli ornati di Giotto. Si inizia a pensare di destinare la Cappella ad uso museale. Ed infatti il ciclo di affreschi qui esposto proviene dal castello di Casaluce a Caserta. Vi sono anche un repertorio di sculture di produzione napoletana del XV e XVI sec. Il tabernacolo, La Madonna con bambino, è di Domenico Gagini e le due Madonne con Bambino di Francesco Laurana.
All’interno della Cappella vi sono due scale, ora murate, una conduceva al sotterraneo chiamato della “Congiura dei Baroni” e l’altra porta al piano superiore, alla cosiddetta “Sala dei Baroni”. La crisi aperta da Giovanna II, rimasta senza eredi diretti, e la conseguente guerra tra Angioini e Aragonesi causa molti danni alla fortezza. Infatti, dopo l’ingresso trionfale di Alfonso V d’Aragona, diventa oggetto di un radicale restauro che “trasformerà il castello nella più grande reggia fortificata del ‘400” (Pane).
Alfonso convoca a Napoli maestranze catalane che daranno vita alla possente struttura della fortezza con le cinque torri rivestite in piperno. Il direttore dei lavori fu l’architetto Guglielmo Sagrera il quale decide di ricostruire il castello secondo un criterio organico e, così, da restauro delle strutture angioine si passa ad un radicale ammodernamento dell’edificio.
E’ la Tavola Strozzi che meglio di qualsiasi altra raffigurazione ci da una precisa descrizione del castello. Stretto tra i giardini e le case principesche sorte nel Largo delle Corregge, l’attuale Piazza Municipio. Inoltre la tavola Strozzi, ci mostra il sistema murario con i basamenti scarpati.
La Sala dei Baroni prende il nome dal noto episodio della cattura dei Baroni che avevano congiurato contro Ferrante, figlio illegittimo di Alfonso. L’ambiente, quasi cubico, ha un’originalissima copertura a volta costolonata, aperta sulla sommità da un oculo. L’idea è quella di un’abile rielaborazione delle coperture a ombrello delle aule termali romane e delle volte a crociera del gotico spagnolo. Le decorazioni, con i temi delle Grandi Imprese e gli stemmi reali, sono andate distrutte nell’incendio del 1919.
I finestrini cubici della parte superiore ricordano i matronei della chiese romane. Le porte presenti nella sala si aprono su piccole scale a chiocciola che conducono alle tribune, alle torri o ai camminamenti presenti nei muri perimetrali. Ciò che maggiormente colpisce di questa sala è l’essere assolutamente inaspettata. Infatti nulla all’esterno denuncia la complessità della copertura. Vi è, dunque, una mancata corrispondenza tra interno/esterno volutamente ricercata dal Sagrera. Oggi è sede di riunione del Consiglio Comunale.
Il segno maggiore lasciato dalla committenza artistica e culturale di Alfonso è nell’Arco di Trionfo che inquadra l’ingresso al castello, incorniciato tra la torre di Guardia e quella di Mezzo. Vi è la raffigurazione dell’ingresso in città di Alfonso il 26 febbraio del 1443. Il lavoro dell’arco è a più mani e fu interrotto per la morte di re Alfonso per essere poi ripreso nel 1465.
Le sculture ci raccontano la presa della città con il re che entra a Napoli sul carro trionfale incoronato e con il globo nella mano sinistra e nella destra lo scettro. L’epigrafe è del poeta Antonio Beccatelli. Nell’edicola è raffigurata l’incoronazione di Ferrante I d’Aragona avvenuta a Barletta nel 1459.
La decorazione rinascimentale ci da scene che ricordano la scuola di Donatello. Nel secondo attico della decorazione sono rappresentate, in nicchie, le quattro Virtù. Il coronamento si chiude con due figure di Divinità fluviali e la statua di S. Michele, protettore delle regioni meridionali in età longobarda.
L’arco interno è opera di Pietro di Martino e Andrea dell’Aquila. Interessanti sono le Prigioni. Nel periodo angioino la cella più angusta era chiamata la Fossa di Carlo Martello. Ma la più nota, racchiusa sotto l’abside della cappella palatina, era chiamata la Fossa del Miglio. Questa è legata alla leggenda del coccodrillo al quale sarebbero stati gettati in pasto i prigionieri e gli amanti della regina Giovanna. Pare che la stessa parola miglio si possa interpretare come una variazione dialettale della parola coccodrillo. Per avvalorare ancora di più questa diceria popolare si è mostrato per un certo periodo un coccodrillo impagliato appeso alla porta del castello.
Con la fine della dinastia Aragonese e l’inizio del Viceregno inizia anche la storia meno felice del castello più volte rimaneggiato, soprattutto negli interni. Viene alzata un’alta cortina muraria che ne ostruisce in parte la vista. Questa cortina merlata verrà demolita solo a metà dell’800. Ossia quando il castello diventa proprietà comunale e sede degli uffici dell’amministrazione. E’ intorno al 1571 che la Gran Sala viene trasformata in Armeria per volere del vicerè Pietro d’Aragona. Fu invece Carlo di Borbone a decidere il rifacimento degli arredi interni della Cappella Palatina.
Nel’900 si inizia a diffondere il nome improprio di Maschio Angioino ed in contemporanea procedeva il restauro coordinato da Riccardo Filangieri. Intenzionato a ripristinare il castello secondo l’immagine del 1400 o, per meglio dire, secondo le immagini tramandateci dalle topografie, soprattutto dalla Tavola Strozzi, e dai dipinti.
Filangieri che procede ad interventi di carattere dimensionale e di destinazione d’uso. Stabilisce così due fasi nella vita dell’edificio: una fase funzionale ormai storicizzata e la fase di recupero e quindi contemporanea. Si decide di prediligere la struttura aragonese e così nel 1926 il Filangieri porta alla luce i basamenti delle torri. Scava il fossato, reintegra la struttura in piperno laddove possibile. L’idea è di non isolare il castello ma anzi di rivitalizzare la struttura storica rendendo più concreti i rapporti fisici che essa ha con l’intorno urbanistico. In modo che la destinazione d’uso dell’edificio non si esaurisca al suo interno ma che sia una struttura attiva.
L’Armeria. Gli scavi hanno evidenziato una fitta necropoli di epoca romana. All’incirca 50 sepolture, con orientamento in genere diversificato in modo da occupare meno spazio possibile. I corpi sono riferibili sia a giovani che ad adulti di sesso maschile e femminile. Non presentano corredo se non qualche oggetto di uso personale, fibbie, orecchini. Di particolare interesse il rinvenimento di una coppia di speroni che fanno pensare che quel defunto avesse uno status di cavaliere.
Usciti dall’Armeria prima di salire al primo piano del Museo Civico troviamo la Cappella delle Anime de Purgatorio. Edificata nel 1570,con pitture ed ornamenti del primo ‘600. Un esempio di barocco sontuoso anche se di qualità inferiore al curatissimo barocco napoletano. La cappella porta questo nome, sia per una lunga tradizione di credenze popolari, sia perché qui i condannati a morte ricevevano i sacramenti prima delle esecuzioni.
Il Museo Civico, unico della città di Napoli, è stato fondato nel 1990 ed inaugurato nel 1992. Le opere sono di proprietà comunale ereditate dall’Ente in seguito all’abolizione dei cosiddetti “Enti inutili”. Il museo ospita per lo più rappresentazioni religiose con dipinti realizzati tra il XV ed il XX sec., una collezione ricca e differenziata.
Nel vestibolo del primo piano incontriamo la porta bronzea voluta Ferrante I per ricordare la vittoria su Giovanni d’Angiò e sui baroni, avvenuta nel 1462. E’ un’opera di Guglielmo Monaco. La porta è divisa in sei formelle di bassorilievi per ciascuna imposta. La lettura dell’evento avviene in maniera cronologica. Lo squarcio con la palla di cannone che colpisce dall’interno, senza sfondare la lastra, è di difficile lettura anche per la mancanza di testimonianze certe.
Molte delle opere del secolo XVII provengono dall’ex Casa Santa dell’Annunziata, sono perciò in prevalenza di carattere sacro.
Il secondo piano ospita una ricca selezione di dipinti napoletani dal’700 al ’900 comprati dalla città grazie alla costituzione di un fondo, voluto da Vittorio Emanuele II, per l’acquisto di opere contemporanee. Incontriamo qui felici opere di Luca Giordano e del Solimena. Le opere dell’800 e del’900 sono di diretta proprietà comunale.
L’esposizione del Museo è organizzata per temi: ritratti, episodi, storia, paesaggi. Dal 1936 nei locali al secondo piano del Castello è ospitata la Società Napoletana di Storia Patria fondata nel 1875 con l’idea, e l’ideale, di contribuire con lo studio del passato a consolidare l’unità degli italiani. La società si occupa anche di un’imponente biblioteca, in parte costituita dal fondo municipale Cuomo con i suoi 35.000 volumi.
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